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Intervista su L’identità – “Così l’uragano in Libia peserà sul petrolio”

Se il battito d’ali d’una farfalla in Brasile può scatenare un uragano in Texas, possiamo soltanto immaginare cosa potrà accadere all’Europa, e specificamente all’Italia, dopo il doppio disastro che ha travolto Marocco e Libia. Il terremoto che ha sconvolto l’Atlante e l’inondazione che ha sfondato le dighe scatenando morte e distruzione tra Cirenaica e Tripolitania avranno effetti a breve e a lungo termine. Sull’economia e, quindi, anche sulla nostra vita quotidiana. Michele Marsiglia, presidente Federpetroli, conosce molto bene quelle zone. E sa che, come diceva Ferdinand de Saussure, tout se tient. Non esistono emergenze o crisi monotematiche. Esistono scenari che si fanno ancora più complessi in un’area delicatissima dove il governo italiano ha deciso di investire molti dei suoi sforzi economici e diplomatici. Rapporti geopolitici, politica energetica e migranti: tutto si tiene, mai come adesso.
Presidente Marsiglia, Marocco e Libia sono in ginocchio. Quanto peseranno queste tragedie sulle strategie economiche e internazionali?
“Il Marocco è sempre stato un partner economico molto importante. Anche prima delle recentissime scoperte, sul territorio e offshore, di grandissime riserve di petrolio e gas. Negli ultimi tempi i rapporti economici si erano intensificati e c’era la fila, lunghissima, di aziende pronte a investire nel Maghreb. Questo grazie al fatto che il Marocco è un regno islamico ma laico quindi molto più “avvicinabile” da parte degli operatori occidentali, e, soprattutto, grazie a un’intelligente politica industriale promossa dal Re Mohammed VI. Che, tra l’altro, è molto favorevole anche all’Italia. Adesso, però, si fermerà tutto. Il Paese deve iniziare la ricostruzione. Avventurarsi adesso è troppo rischioso. Anche per quanto riguarda l’estrazione di idrocarburo. Il Paese è in ginocchio, i danni sono tantissimi e diffusi. E’ stata una catastrofe epocale. E nonostante ciò, il Marocco ha già dato dei segnali precisi. Ha accettato gli aiuti di pochi Paesi, per lo più confinanti. Un messaggio che chi ha orecchie per intendere ha inteso benissimo: Rabat non vuole legittimare domani, accettando aiuti oggi, pretese economiche o strategiche, che riguardino i giacimenti o meno”.
Cosa sta succedendo in Libia, che dobbiamo aspettarci?
“La città di Derma, (uno dei centri maggiormente colpiti dall’uragano Daniel e dove i morti si contano a migliaia ndr) rappresenta uno dei vertici del triangolo del petrolio in Libia. Lì oltre ai terminali, c’è una fitta rete di collegamenti, di oleodotti e di pozzi destinati ad alimentare il fabbisogno interno del Paese e allo sfruttamento da parte delle compagnie straniere. Non è un mistero: gli accordi internazionali stabiliscono, solitamente, che del materiale estratto, il 50% resti alla Libia e il resto vada alle compagnie. La zona colpita dalle inondazioni è tra quelle che produce di più,. E che, ora, ha dovuto iniziare a fermarsi per cause di forza maggiore”.
Che cosa vuol dire?
Che è un guaio. Nelle scorse ore la Noc, National Oil Corporation, cioè l’azienda di Stato che si occupa del settore oil & gas, ha riferito che le strutture sono state colpite dalla catastrofe e che la produzione nazionale in Libia di petrolio e gas è già diminuita. Per forza di cose. L’annuncio ha avuto un effetto immediato: in pochissime ore, il prezzo del greggio è salito di due dollari. E continuerà a farlo. Avremo meno petrolio, meno gas a prezzi più alti. Un assist ai Paesi dell’Opec e alla Russia che, senza colpo ferire, registreranno un’ulteriore diminuzione della produzione senza doversene assumere le responsabilità geopolitiche. Rischiamo, entro fine anno, di perdere livelli produzione fino a sei milioni di barili di petrolio al giorno. La Libia così rischia, per cause naturali, di diventare una sorta di ago della bilancia degli equilibri mondiali. E, intanto, noi rischiamo che esploda, presto, un’altra bomba di dimensioni planetarie sul mercato degli idrocarburi. Con tutte le conseguenze del caso”.
Conseguenze che impatteranno, ed eventualmente come, con il piano Mattei?
“Le priorità saranno sicuramente riviste. Per forza di cose. Sarà un po’ come è stato al G20 prima della guerra tra Russia e Ucraina. Si presero impegni ben precisi a favore del clima. Poi arrivò il conflitto, scoppiò la crisi energetica e fummo costretti a rimettere in moto le centrali a carbone. In questo momento, di fronte alle grandi emergenze, il piano Mattei non potrà essere più al primo posto. Ci sono i nodi della geopolitica, le strategie delle politiche energetiche e l’emergenza migranti che lo sovrasteranno. Il governo Meloni dovrà fare molta attenzione: si trova di fronte a una situazione di equilibri delicatissimi e precari. Sbagliare una mossa potrebbe comportare l’innesco di una serie di conseguenze potenzialmente gravi”.
Quali ?
“Il piano Mattei, fino a questo momento, è stata una grande idea ma che presenta un altissimo tasso di rischio. Che è rappresentato da due fattori concentrici: dipendiamo troppo dall’estero e, in particolare, da aree che sono classificate da sempre come ad alto rischio operativo. Intendiamoci, non abbiamo le risorse né possiamo sperare di vivere con quelle che ci sono, e che non sono nemmeno sfruttate, nel sottosuolo italiano. Ma non si può avere una sproporzione così ampia: oggi dipendiamo, per il 70 per cento, dall’estero. E per di più, dipendiamo da Paesi in cui basta una catastrofe naturale o un evento bellico per farci finire in difficoltà. Se fosse accaduto in Algeria ciò che è successo in Libia, per esempio, oggi avremmo sicuramente molto meno gas”.
Incombe, oltre alla questione del petrolio tra Libia e Marocco, il tema migranti. Tra le chiusure Ue e le catastrofi in Maghreb, il governo dovrà andarci davvero con grande cautela. Quale è la strada da percorrere?
“Parliamo di Paesi in cui il compromesso arriva prima del business. Non si può pensare più di andare in Nordafrica o nel Medio Oriente e pretendere che siano gli altri ad adeguarsi a noi. Semmai, siamo noi occidentali a doverci adeguare a quei Paesi, dal momento che siamo noi a volere il loro petrolio, il loro gas. Se l’Italia iniziasse a fare ostruzionismo sulla questione migratoria, si potrebbero creare problematiche quando si entra in quei Paesi e si chiede di poter sondare operazioni industriali in campo petrolifero”.

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